È possibile fare spettacolo rinunciando completamente ai finanziamenti pubblici? A questa domanda ha cercato di dare risposta Luciano Vanni, editore e direttore di JazzIt, in due incontri pubblici tenuti alla Casa Cava di Matera il 13 e il 14 novembre, organizzati dall’Onyx Jazz Club. Ascoltiamo direttamente da Luciano Vanni in che modo è possibile un nuovo welfare della cultura.

Ieri hai parlato del danno che i contributi pubblici hanno fatto alla cultura introducendo il concetto di infarto culturale. Cosa intendi esattamente con questo termine?

«Innanzitutto ho citato. Ho citato un libro, Kulturinfarkt edito dalla Marsilio Editore e scritto a otto mani, da quattro intellettuali tedeschi. Siamo partiti da giù sostanzialmente per ridiscutere la prassi organizzativa basata esclusivamente sui contributi pubblici. Innanzitutto siamo partiti dalla distinzione tra cultura, spettacolo e patrimonio artistico. Quindi, lasciando per un attimo la parola cultura, il concetto è: “è possibile fare spettacolo non più a debito, ma a credito?”, e soprattutto senza più essere sulle spalle dei contribuenti? Questa è la domanda su cui poi abbiamo costruito il dibattito».

Quindi qual è l’alternativa ai contributi pubblici?

«L’alternativa è questa: sostanzialmente l’idea che stiamo facendo nascere è quella di far sì che allo stato centrale e periferico spetti di finanziare la cultura in termini profondi, cioè cultura intesa come còlere, coltivare, come quell’azione di educazione dei cittadini. Quindi io penso che sia giusto considerare cultura un welfare, come la sanità e l’istruzione, perché se lo stato inizia ad investire effettivamente in cultura, quindi erogando un servizio di base ai cittadini, migliora appunto la qualità del sapere dei propri cittadini. A quel punto lasciamo lo spettacolo – che appunto viene da spectaculum, che è assistere – al mercato. Il concetto di base è che abbiamo distratto troppi contributi pubblici per finanziare lo spettacolo, pensando di fare cultura investendo in infiniti festival, in infiniti convegni, in infinite mostre. Insomma, da qui è nato il nostro corto circuito intellettuale: un vero e proprio corto circuito che ha portato all’infarto culturale italiano».

Hai detto anche che gli eventi e gli spettacoli non dovrebbero essere organizzati da associazioni culturali ma da imprese private, quindi costituite come srl o cose del genere. Quindi, supponiamo il caso di un’impresa che cominci a organizzare degli eventi in questo modo, senza attingere ai fondi pubblici: quale sarebbe il primo passo da fare per un’impresa che volesse organizzare concerti in questo modo? Senza attingere ai fondi pubblici, però…

«Che tipo di fundraising…».

Esatto.

«Innanzitutto il volontariato è fondamentale quando si parla di cultura, quindi io non voglio sottovalutare quel tipo di importanza. Mi torna strano pensare che tutto il mondo dei professionisti – musicisti, fonici, allestitori, illuminotecnici e compagnia – poi alla fine debba sempre confrontarsi con chi quel tipo di lavoro lo fa per diletto, per volontariato, perché lo fa all’interno di cellule che sono associazionistiche, non profit. Secondo me il diaframma che non torna è quello che lo stato eroga contributi pubblici alla cultura pensando di finanziare la cultura, e invece finanzia infiniti festival e concerti. Quindi non si preoccupa di migliorare lo stato intellettuale del cittadino, ma gli dà spettacoli. A quel punto, quando dà il contributo pubblico agli spettacoli, a chi li dà? Ad associazioni senza fini di lucro. Quindi chi sono? Dilettanti. Non voglio entrare nel disprezzo del dilettante, però dico che effettivamente chi è che fa attività non profit? Uno che le fa per diletto, non per professione. Se lo fai per professione lo fai con una tua partita iva. Quindi questi soldi vengono drenati da associazioni culturali – quindi da chi lo fa per diletto – che vanno sul mercato e si confrontano con partite iva (professionisti). Tutto questo crea un’infinità di attività, spesso gestite in maniera un po’ approssimata, e quindi il problema è: “Come riuscire a finanziare?”. La mia ipotesi è di iniziare a fare spettacolo con piccole forme professionali: partite iva, oppure adesso ci sono le srl semplificate, quindi con un euro di capitale sociale. Come finanziarsi? In mille modi. Io dico sempre di andare a vedere il sito web della Royal Albert Hall, che per statuto non prende contributi, sostanzialmente, e si finanzia con biglietti, merchandising, royalties e un’infinità di soluzioni. Oggi andiamo a verificare le infinite possibilità di ricavi di scala facendo eventi, sostanzialmente. Questa è un po’ la sfida. Non è facile, perché siamo tutti intossicati, siamo tutti “drogati”: come si fa a organizzare le cose senza contributi pubblici? Stasera ci proviamo».

Alcuni mesi fa il MIBACT ha emanato un bando chiedendo ai musicisti di suonare gratis per le Notti al museo. Un musicista, un violoncellista che si chiama Michele Spellucci, ha inviato una lettera aperta al ministro, approfondita ed intelligente, che ha avuto una grande eco su internet, e il ministro ha corretto e alla fine ha ritirato il bando. Cosa ne pensi di tutta questa vicenda?

«Ingenuità. Ingenuità del ministro. C’è questo problema, che quando si chiede a un musicista di suonare gratis sembra di chiedere il demonio. Io faccio l’editore di professione, e per professione regalo un’infinità di riviste, regalo un’infinità del mio lavoro, perché penso che uno dei migliori mezzi per promuovermi sia anche quello di farmi conoscere. Io sono venuto qua, ho portato le mie riviste, le omaggio perché penso che uno su dieci magari poi si abbona. Però è ingiusto che al musicista si chieda di suonare gratis. Io sto dalla parte degli artisti, e vorrei che sia lasciata a loro la decisione. E poi, soprattutto, se interviene un ministro non può fare quelle cadute di stile. Quindi l’ho trovato assolutamente di dubbio gusto, e quel musicista ha fatto un testo – poi raddoppiato da un altro testo sul teatro di Roma – assolutamente intelligente e puntuale. Bravo».

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