Il cantautore Marco Sforza ha la schiettezza tipica degli emiliani, e di conseguenza le sue canzoni riflettono il carattere ruspante di quella terra: frizzanti come un buon lambrusco e sostanziose come un piatto di tortellini. Ascoltandolo dal vivo, inoltre, questa sensazione non può che accentuarsi, visto il rapporto particolare che instaura con il pubblico. Il contesto intimo in cui ho potuto ascoltarlo (l’inaugurazione della libreria Piccoli Labirinti, a Parma, di fronte ad un’audience ristrettissima), non ha potuto che enfatizzare ancora di più queste sue caratteristiche. Quella che segue è un’intervista a questo grande talento della musica italiana, che può essere tranquillamente inserito tra i grandi nomi della nostra canzone d’autore.
Da dove prendi ispirazione per le tue canzoni?
«Prendo ispirazione da quando la pancia mi ribolle, da quando mi arriva dentro quel flusso che può arrivare da qualsiasi cosa: da una persona che passa per strada, o magari ascoltando un’altra canzone, per cui mi vengono in mente altre melodie su cui posso lavorare. L’ispirazione è veramente molto ampia, se c’è uno dotato di ispirazione. Secondo me parte prima: dentro di te hai sempre, comunque, costantemente, bisogno di buttar fuori qualcosa. È come se dentro di te ci fosse un treno che va sempre, e quando vuoi fare una canzone tu fermi il treno e la scrivi. Poi si riparte. È un po’ così: l’ispirazione è come un treno in corsa, quindi diciamo che sono sempre ispirato».
Il tuo ultimo album si intitola “Un capolavoro”: perché hai scelto questo titolo?
«Perché alla fine io sono un capolavoro! No, guarda, ti dico la verità: non ho saputo fino alla fine come intitolare questo disco. L’ultima canzone del disco si intitola proprio “Un capolavoro”: è una piccola descrizione naif, molto felliniana, se vuoi, della mia persona: “Io son bello di mio, sono un capolavoro. Un romantico perverso melanconico nostalgico”. Quella canzone descrive proprio quel detto “se la canta e se la suona”. L’arrangiamento mi piace moltissimo: mi ricorda molto gli anni Cinquanta e Sessanta, con quel classico beat che ricorda anche un po’ il twist. Io sono molto legato a quei tempi là, difatti la canzone è nata proprio in cinque minuti: il batterista ha dato un tempo, io ci ho fatto due accordi col piano, ed è nata così. Da lì ho deciso di chiamare il disco “Un capolavoro”, un po’ perché strada facendo abbiamo notato con gli altri musicisti che anche le altre canzoni erano tutte belle, dalla prima all’ultima. Mi sono reso conto della maturazione che stavo facendo, e del risultato finale. Allora ho deciso di intitolarlo così».
A proposito dei musicisti, puoi dirci qualcosa su di loro? Come è andato il lavoro in studio di registrazione?
«Prima di tutto non era uno studio, ma un teatro: il fantastico teatro di Pennabilli, che si trova nell’entroterra romagnolo. Abbiamo avuto il teatro vuoto, gestito dal comune di Pennabilli, dove ho conosciuto il custode del teatro che è anche fonico, e che ringrazio ancora per tutto quanto: Franco Fucili. È stato lui a gestire tutto, e da lì è partito il progetto. Siamo stati lì praticamente un mese intero e abbiamo fatto questo disco. I musicisti che hanno suonato sono Matteo Pacifico al clarinetto e al sax, il Maestro Gildo Montanari – che è un grande fisarmonicista romagnolo – alla fisarmonica, Tommy Graziani alla batteria (Tommy è il figlio di Ivan Graziani), Marcello Bassoli alle percussioni, Dario Vezzani al basso e al contrabbasso, e come perla finale un chitarrista e arrangiatore bravissimo – conosciuto praticamente un mese prima della registrazione – che si chiama Massimo Marches, difatti lui ci ha dato una mano grandissima per gli arrangiamenti del disco. Questa è l’Orchestrina Separè al completo».
Questo per ciò che riguarda la musica. Per quello che riguarda i testi, invece, e in particolare il tuo rapporto con la letteratura – visto che oggi siamo in una libreria – com’è il tuo rapporto con la letteratura e con la parola scritta (o cantata)?
«Ti dico la verità: preferisco molto di più scrivere le cose. Se mi chiedessero: “Com’è che ti esprimi meglio?”, io sicuramente direi con la scrittura. Forse è sempre stato così: nella scrittura riesco a crearmi davvero una sorta di castello, oppure riesco a costruire davvero bene, riesco a essere più esplicito ma anche più efficace e più semplice. Con la parola faccio un po’ più fatica, infatti non si capisce mai niente di quello che dico – o quasi. Però, tornando alla tua domanda su quali sono le mie letture: io sono molto legato ai raccontatori di storie e di novelle. Ti faccio due o tre esempi: leggo spessissimo Buzzati, Vassalli, Celati, difatti mi piacciono veramente le storie brevi, cioè i racconti che narrano in breve tempo ma che hanno un influsso formidabile. Sono storie che ti possono raccontare di qualsiasi cosa, di una sedia, di una fermata del tram, di un bar, o di un libro. Quel modo di raccontare, in un determinato contesto, lo preferisco. Forse perché sono anche un po’ pigro a leggere i romanzi, troppo lunghi… Forse parto da quel tipo di storie, dalla quotidianità, dal piccolo, per poi magari esaltarlo con una canzone, con quello che alla fine mi viene fuori. E un occhio di riguardo ce l’ho soprattutto per la mia terra: mi piace moltissimo andare a scovare racconti che parlano dei luoghi in cui sono nato, da dove vengo, soprattutto dall’Emilia, le storie di paesi, i racconti, le leggende, mi piacciono moltissimo. Forse è anche quello che mi stimola moltissimo a costruire delle storie vere dandole quel sapore un po’ surreale, se vuoi».
Un’ultima domanda che mi piace fare spesso agli artisti per vedere la diversità delle risposte: qual è secondo te la più grande sfida per un artista?
«Fare piangere e fare ridere allo stesso momento, per come la vedo io. È come un attore, un regista, un cineasta, un pittore: io li metto tutti lì. Se riesci a condensare in un’opera una creazione, che sia una statua, una canzone o un libro, se chiudi il cerchio delle emozioni per me è il massimo, la soddisfazione più grande. Però dentro a questo cerchio ci deve essere soprattutto, per quanto mi riguarda, un’onestà intellettuale molto forte, cioè un’identità tua. Perché se cominci un po’ a “svaccare”, ad andar fuori dal seminato, a copiare, o a cercare di assomigliare un po’ a l’uno e un po’ all’altro… Devi essere un po’ franco con te stesso, poi alla fine è sempre il pubblico che decide. Fino ad ora me ne sono sempre fregato, sono andato avanti con le mie cose, ma poi alla fine secondo me qualcosina piace…».
Direi proprio di sì!
«E quindi va bene così».