Chi ha avuto modo di assistere al concerto che Enrico Rava ha tenuto lo scorso 4 gennaio alla Casa Cava a Matera, nell’ambito del festival BasiliJazz, si sarà certamente reso conto che oltre al talento indiscusso del grande trombettista protagonista della serata, anche quello dei giovani musicisti che suonavano con lui per l’occasione era di altissimo livello. Rava ha mantenuto per tutto il concerto un dialogo continuo con gli altri musicisti, nel segno di quell’interplay che ha nell’ascolto reciproco la base di un certo tipo di discorso musicale collettivo. E così Attilio Troiano (sax tenore), Vince Cristallo (chitarra), Giuseppe Venezia (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria – in sostituzione dell’annunciato Greg Hutchinson, bloccato a New York per via del maltempo) hanno dato un’ottima prova confermata anche dalle parole di apprezzamento dello stesso Rava dal palco, in particolare per Troiano e Fiore.
Il quintetto ha suonato degli standard tra cui ha spiccato una sorprendente versione diYou don’t know what love is, con la chitarra che ha iniziato con un ritmo reggae seguita poi da basso e batteria che hanno sostenuto il gioco sulla falsariga di un jazz-reggae molto originale.
Enrico Rava, che emana un fascino particolare già solo nel vederlo suonare, è il jazzista italiano più conosciuto all’estero per via delle sue collaborazioni prestigiose sin dagli anni Sessanta, quando viveva e suonava a New York in un periodo in cui la maggior parte dei musicisti che hanno fatto la storia di questa musica era ancora viva e in piena attività. Gli innumerevoli aneddoti riguardanti le sue vicende musicali e i suoi incontri con grandi musicisti sono stati raccontati da Rava stesso in un libro che lui ha scritto un paio di anni fa. È proprio da questo spunto che parte l’intervista che segue, realizzata a margine del concerto (la registrazione audio è disponibile cliccando Play nel lettore qui sotto).
[display_podcast]«Io soprattutto ho un grande rapporto con la lettura, perché leggo proprio [tanto; ndr]… sono onnivoro, e conseguentemente mi piace anche scrivere, dato che mi piace leggere. Mi sono divertito moltissimo a scrivere questo libro: non era intenzione mia scriverlo, ma è la Feltrinelli che mi ha proposto questa cosa. Io ho accettato con gioia, mi sono divertito un sacco. Mi sono limitato soprattutto a degli aneddoti, possibilmente abbastanza divertenti e non autocelebrativi. La mia vita intima non c’è, non è un’autobiografia, anche se sono appunto aneddoti raccontati cronologicamente, quindi può anche sembrare vagamente un’autobiografia, ma non lo è assolutamente. La mia vita intima non c’è. Ci sono delle storie che coinvolgono anche dei musicisti, e a volte no».
Possiamo ricordare una di queste storie?
«Una che mi diverte molto, e mi diverto molto a raccontare, è al Village Vanguard quando al concerto di Gato Barbieri io quasi mi picchio con uno credendo che fosse andato ad insultarlo, invece mi sono sbagliato, anzi, era uno dell’agenzia William Morris che era interessato a Gato Barbieri, quindi ho fatto una figuraccia di quelle proprio spaventose. Comunque, sono episodi che non posso raccontare adesso in due parole, sono scritti lì…».
Com’è cambiato secondo lei il mondo del jazz da quando lei ha cominciato a suonare rispetto ad oggi?
«Il mondo del jazz italiano, o del jazz in genere?».
Del jazz in genere.
«In genere, è cambiato nel senso che i grandi maestri che hanno inventato questa musica – quando io ero ragazzino erano ancora vivi Armstrong e Parker, per esempio – c’erano, adesso non ci sono più. Sì, ce n’è un paio… ma quei pochi sono veramente vecchissimi, ormai quasi fuori discussione. Qui è pieno di musicisti fantastici, oggi, ma nessuno può riempire quello spazio, anche perché è un momento storico diverso. Soprattutto, la grande differenza è che è un altro momento storico, quindi il jazz ha anche un impatto diverso, cioè di gran lunga inferiore, perché negli anni Cinquanta si era ancora sull’onda di un jazz che oltre ad essere una musica d’arte era una musica popolare. Mi riferisco ovviamente alla musica degli anni Trenta, Quaranta, quando c’erano ancora Benny Goodman, Count Basie, le grandi orchestre, tutte queste cose… era la musica popolare, che poi è stata sostituita dalla soul music, dal pop, ecc. Col bebop c’è questa trasformazione che diventa una musica essenzialmente d’ascolto e perde tre quarti del suo pubblico, e poi andando avanti sempre peggio. Col free jazz poi… Praticamente è diventata una musica d’ascolto, raffinata, ed è una grossa differenza rispetto a com’era negli anni Trenta, per esempio, Quaranta, ma anche Cinquanta, quando era ancora vivo quel tipo di cosa».
Invece, per quello che riguarda la musica italiana?
«Qui il cambiamento è al contrario: qui prima non c’era nessuno e invece in questi ultimi vent’anni sono esplose decine e centinaia di musicisti veramente bravi, quindi… Che mi chiedo cosa faranno nella vita, perché con questa crisi – per esempio – che non passa, mi sa che… Però ci sono dei musicisti veramente eccezionali».
In un’epoca di globalizzazione, secondo lei, le differenze nazionali hanno ancora un senso oppure tutto è un po’ mescolato e quindi è tutta una sorta di fusionglobale?
«Mah! “Fusion globale” mi sembra un termine completamente inadatto, non vedo cosa c’entra».
Nel senso che spesso si mescolano anche generi musicali diversi.
«Beh, ma questo è sempre stato lì, perché il jazz è nato così, mettendo insieme generi musicali diversi, mettendo insieme memoria dell’Africa con la musica sacra inglese, con la musica da salotto francese, con l’opera, e si è evoluto sempre in questa maniera, poi c’è stata l’immissione della musica cubana all’epoca del bebop, ma anche prima, con le famose Spanish tinge, all’epoca di Jelly Roll Morton, e così si è sempre andati avanti con queste… Cioè, io non credo che esista un jazz italiano, un jazz francese, un jazz svizzero… c’è una musica, che è il jazz – che non so neanche bene cosa vuol dire perché implica dal dixieland al jazz-rock a qualunque cosa – e c’è questa musica che è suonata da degli americani, da degli italiani, o da francesi, ma è una musica universale, ecco».
Qual è la più grande sfida per un jazzista?
«La più grande sfida è riuscire a migliorare, sempre. Questo è l’unico scopo, l’unica cosa. Riuscire ad andare avanti, non fermarsi lì, non accontentarsi. E la grande sfida è riuscire a vivere di quello che piace; questa è la grande sfida. Il fatto di riuscirci – per quelli che ci riescono – è un privilegio enorme, perché ci sono miliardi di esseri umani che vivono facendo una vita che detestano. Chi riesce a vivere di questo – chi ci riesce, perché molti non ci riescono – vive divertendosi, viene pagato per giocare. Quindi la grande sfida è riuscirci».