Nik Bärtsch è un pianista e compositore svizzero con una interessante visione filosofica della musica, che è intensamente basata sulle ripetizioni. Ha suonato ieri a Varsavia, al festival Warsaw Summer Jazz Days, presentando il suo progetto Ronin, in cui ha suonato con Kaspar Rast (batteria), Thomy Jordi (basso) e Sha (clarinetto basso). Avendo avuto la possibilità di intervistarlo gli ho fatto qualche domanda sulla sua particolare visione della musica. Qui sotto trovate il video con l’intervista e alcuni momenti del concerto.

La tua musica è fortemente basata sulle ripetizioni: ti descriveresti come un “minimalista”?

«Ciò non ha influenza: è una strategia musicale a cui siamo interessati come gruppo. Non suoniamo dei loop come nella musica elettronica, ma suoniamo musica ripetitiva, quindi lavoriamo tanto con gli schemi e gli incastri, e questo flusso che si sviluppa quando si suonano le ripetizioni è qualcosa a cui siamo molto interessati nel risultato che otteniamo come groove, o come flusso, e anche per ciò che riguarda le connessioni formali».

La ripetizione è una specificità di questo progetto chiamato “Ronin”? Qual è la differenza fra questo tuo progetto e gli altri che porti avanti?

«Sono interessato, in generale, alle strategie ripetitive in musica, quindi si possono trovare anche in un altro mio progetto che si chiama “Mobile”, che si differenzia per essere un progetto acustico in cui suoniamo in concerti di durata maggiore, come in una sorta di rituali musicali. In “Ronin” lavoriamo anche molto sulle ripetizioni, ma più nella direzione del groove, della musica amplificata e anche, in un certo senso, di musica improvvisata su cui lavoriamo con schemi e variazioni. Quindi questo interessante flusso di groove in combinazione con le ripetizioni e le variazioni si può trovare in tutta la musica che compongo e in tutti i groove a cui lavoriamo insieme».

Hai detto che il tuo pensiero e la tua musica sono basati sulla tradizione dello spazio urbano. Cosa intendi esattamente?

«Sono cresciuto in una città – a Zurigo, in Svizzera – così come il batterista Kaspar Rast, e abbiamo anche suonato insieme molto presto diversa musica groove. Quindi non si è influenzati principalmente da una tradizione nazionale, o dalla musica “folk”, ma in uno spazio urbano si incontrano tanti stili, tante persone, e si ascoltano molte influenze. C’è una certa consapevolezza di come si lavori con una certa influenza, ad esempio Stravinskij ha preso molta musica arcaica, ma l’ha trasformata in un’orchestra moderna e in un’estetica moderna, e questa è una strategia molto urbana, se confrontata con certe influenze musicali che hanno più a che fare con il “folk”, o con le tradizioni nazionali, o con certi stili della musica tradizionale. Questa coscienza urbana dell’apertura a certe influenze per trasformarle con la comunità locale in qualcosa di proprio, è per noi molto importante. Si impara una lingua, ma poi si sviluppa un dialetto, e poi si sviluppa anche un certo gergo, con le sue ironie e certe influenze di vicinato comunitario davvero uniche».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Noi lavoriamo sempre a “spirale”, in un certo senso, quindi portiamo sempre avanti le radici. Cerchiamo di lavorare negli anni con le strategie di ripetizione e di groove che abbiamo, quindi è importante non cambiare progetto ogni stagione: c’è anche una comunità che lavora insieme, e con i nostri concerti del lunedì nel nostro club – nel quale suoniamo da dieci anni – continueremo a sviluppare la nostra musica portandola avanti molto dolcemente e lentamente nel senso di esplorarla nuovamente con il passo della pazienza. Si tratta di qualcosa di diverso dall’idea comune per cui si ha un nuovo progetto su cui spostare l’attenzione nella stagione successiva. Piuttosto, è un’idea che si basa sul lungo termine, e che è possibile trovare ad esempio nella tradizione dell’artigianato giapponese o delle arti marziali giapponesi».

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