Danilo Rea è uno dei musicisti italiani che ammiro di più, e recentemente ho avuto il piacere di incontrarlo in occasione di un concerto che ha tenuto a Varsavia il 7 luglio insieme ad Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini, nell’ambito della rassegna Jazz na Starówce. Qui sotto trovate il video dell’intervista, seguito dalla trascrizione del dialogo. Chi fosse interessato, può anche vedere la prima parte dell’intervista, in cui Danilo Rea parla della sua collaborazione a “Stelle di stelle”, di Claudio Baglioni.

Ciao a tutti gli amici di Paroledimusica, io oggi ho il piacere di essere qui con Danilo Rea, che è a Varsavia e questa sera suonerà in trio con Ares Tavolazzi ed Ellade Bandini. Io ho alcune domande per te: secondo te ha ancora senso oggi, in un contesto in cui tutto è globalizzato – anche la musica – parlare di differenze tra jazz italiano, jazz polacco, jazz europeo, jazz americano, o è tutto ormai globalizzato?

«No, secondo me ci sono delle differenze. Le differenze sono nella natura stessa delle popolazioni, ogni nazione ha una sua personalità, e questa ovviamente viene riportata in musica. Tu sai che nell’improvvisazione ognuno suona ciò che è, per cui è chiaro che il contesto in cui uno nasce e cresce è fondamentale. Per esempio Ellade ed Ares, che sono nati a Ferrara, sono due grandi amici, e questa cosa nella musica viene riportata praticamente in un modo secondo me molto bello, insomma. Tutto funziona, in musica, quindi parlare di globalizzazione musicale… Io trovo che in Europa ci siano delle “scuole”: per esempio gli scandinavi suonano in un modo molto personale e hanno seguito una strada – soprattutto negli anni Ottanta – che ha portato a delle bellissime cose musicali. In Italia adesso, e non solo adesso, sono state fatte delle cose con uno spirito mediterraneo che ovviamente è lontano da un contesto come quello scandinavo».

Tu suoni spesso in formazioni piccole come il trio, oppure addirittura in solo, quindi ho l’impressione personale che tu preferisca le situazioni più piccole a quelle più grandi. Che cos’è che ti attira di questo tipo di formazione, e del trio in particolare, visto che stasera suoni in trio?

«Il trio per un pianista è la formazione ideale. C’è il trio e c’è il piano solo. Il trio, per quanto riguarda il jazz, è il modo migliore di esprimersi, per un pianista, secondo me. E credo sia anche molto divertente per contrabbasso e batteria, perché è tutta da scoprire la musica: quando si suona in trio si può andare ovunque».

Quindi è una formazione classica che però ha ancora tanto da dire.

«Sì, le strade del trio sono infinite».

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